Sono sotto la doccia, l’acqua è rovente e ho la fronte appoggiata al vetro freddo. Ma non è cominciato tutto qui.
Il parcheggio dove abbiamo appuntamento è illuminato solo da un paio di alti lampioni posti sul perimetro.
Ho freddo, tutto il giorno sono stato in giro per la città ed ho i piedi congelati. Cerco di tenere le mani nella tasca della giacca più che posso nel tentativo di scaldarle.
Arriva una macchina, si apre lo sportello e V. mi saluta venendomi incontro. Ci siamo conosciuti poco prima al telefono, mi ha accennato poco o niente del lavoro, ho solo capito che c’erano da fare delle foto fuori città, ho preso lo zaino con l’attrezzatura e sono andato all’appuntamento. Salgo in macchina con lui e partiamo.
Imbocchiamo la statale che si allontana dalla città e lungo la strada V. mi spiega che stiamo andando in un campo ROM dove il comune ha da poco cominciato uno sgombero.
Giriamo a destra e ci addentriamo nelle campagne per una stradina sterrata. Ormai è notte ed i campi sono completamente avvolti dal buio. Istintivamente faccio a mente il calcolo di quanto costa l’attrezzatura che ho nello zaino.
Sul posto ci aspetta G. che ci dovrebbe introdurre alla famiglia con la quale parleremo. Scendiamo dalla macchina, il freddo penetra nei vestiti, stringo i gomiti ai fianchi.
Il campo è molto più piccolo di quanto mi aspettassi, alcune famiglie sono già state sgomberate e sistemate in alcuni appartamenti messi a disposizione dal comune, restano alcuni rottami di quelle che devono essere state delle abitazioni. Camminando verso la prima baracca G. ci richiede i nomi per presentarci. Entriamo.
L’interno è molto semplice, ogni parte dell’arredamento è vistosamente di recupero ma nonostante questo non manca di essere abbellita con tessuti colorati, cuscini e fiori. Nella fioca luce dei generatori si scorgono mille colori. Ci fanno accomodare su una panchetta stile sala d’attesa con tre sedute affiancate, coperta anche lei da un drappo nero a fiori rossi.
Davanti a noi la padrona di casa, accanto a lei uno dei figli, il genero ed una nipote. V. comincia a registrare e a prendere appunti, loro si presentano uno ad uno ed i loro nomi svelano le loro origini slave, ma tutti, tranne la piccola P., vivono in Italia da più tempo di me.
Abbiamo deciso di rompere il ghiaccio prima di chiedere se possiamo fare delle foto così sono seduto su questa panchetta colorata, non posso fare il lavoro per cui sono lì, aspetto e ascolto. La piccola P. è seduta in un angolo di quello che è il divano ed il letto della casa. Dietro di lei c’è letteralmente una montagna di cuscini coloratissimi. Lei ha delle scarpette rosse, un paio di jeans ed un maglione. Giocherella con un foulard verde che piega appoggiandolo sulle gambe. Quando ride si copre la bocca con il foulard e restano fuori solo due occhietti vispi.
Esco fuori a prendere la macchina fotografica, un paio di scatti ed è ora di congedarsi. La padrona di casa si alza e mette un altro ciocco di legno nella stufa al mio fianco, poi si sposta davanti ai fornelli e comincia a preparare il caffè.
Usciamo fuori, guardo verso l’alto e il primo fiocco di neve mi colpisce il volto. Sarà per la stufa, sarà per il sorriso della piccola P., ma ora non ho più freddo.